Mark Kostabi: la critica di Vittorio Sgarbi

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kostabi“Le Avventure di Kostabiman contro la Finalcial Art”
A cura di Vittorio Sgarbi

Non avrebbe senso criticare l’arte di Kostabi perché commerciale: l’arte di Kostabi vuole essere volutamente commerciale e la semplicità strutturale del suo stile è una funzione finalizzata a esprimere al meglio questa vocazione.

Allo stesso modo, non avrebbe senso liquidare l’intenzione commerciale dell’arte di Kostabi senza accorgersi che essa riprende il problema della. “democraticità” dell’arte da dove l’aveva lasciato Warhol, sviluppandolo e proponendo nuove possibilità per una sua soluzione.

Si può eventualmente criticare la proposta, ritenendola inadeguata, ma non eludere la questione che Kostabi affronta. Sono passati pochi anni dalla morte di Warhol, eppure il suo mondo, che poteva sembrare il punto estremo di una parabola storica, è  già  profondamente diverso da quello di Kostabi.

Il problema del modello sociale e politico dell’arte si è fatto ancora più urgente e contraddittorio rispetto ai tempi di Warhol. Oggi tutta l’arte che conta è arte fortemente d’elite, compresa quella che vuole apparire una sua alternativa. È un’arte in cui i mercanti si sono impossessati totalmente del tempio, senza temere nessuno che li cacci via, mascherandosi anzi da perbenisti.

È una arte che santifica il denaro come mai aveva fatto in passato, un’arte che serve a fare soldi (agli artisti, ai galleristi, ai critici che meglio si adeguano alle leggi del mercato) e far fare bella figura a ricchissimi collezionisti e mecenati: gli Agostino Chigi dei nostri tempi.

Anche coloro che si sono arricchiti vendendo armi a Hitler e usufruendo del lavoro forzato – la famiglia Flick a Berlino, per esempio – possono rifarsi con una bella collezione artistica che viene messa a disposizione del pubblico, capace di glorificarli in eterno. Niente di nuovo dal Cinquecento in poi, si dirà.

In realtà, qualcosa di diverso c’è: oggi l’arte di élite è diventata una financial art, una borsa finanziaria esattamente corrispondente a quella dei titoli azionari. Si compra arte per fare affari, per investire, per avere dei vantaggi, dei plusvalori.

Quale la differenza fra un titolo azionario e un dipinto? Solo una opera d’arte può darti, oltre alla soddisfazione per la crescita del suo valore economico, anche la gratificazione estetica. Ma in questo gioco di società per miliardari non è un obbligo il piacere degli occhi, perchè l’arte come questione strettamente estetica è diventata un fatto trascurabile.

L’importante è promuovere un “titolo”, un’operazione di marketing che sia in grado di trasformare un artista insignificante in un maestro epocale; basta un gallerista, un critico, un giornale “giusto”, e tutti i miliardari che  partecipano al gioco investiranno sul “titolo” che loro promuovono.

Quando l’arte fa girare tanto denaro, quando collezionisti spendono tanto  per  comprarla, nessuno si pone più altre domande: se costa, vuol dire che vale. Non è un caso che uno dei più rappresentativi collezionisti dei nostri tempi, Charles Saatchi, sia un grande mago della pubblicità.

Non è un caso che proprio da Saatchi siano venute alcune delle operazioni più spregiudicate della nuova financial art, come la vendita a Damien Hirst di opere in “formaldeide” che il collezionista gli aveva comprato negli anni scorsi. Gli artisti comprano le loro opere per rivalutarle, quindi per pura speculazione finanziaria: non era   mai successo prima, ma diventerà la regola nei nostri giorni. Sono queste le grandi performance artistiche dei nostri tempi, non le opere che coinvolgono. Ci si aspettava un freno, a questa assurda financial art, dai musei, quindi dalle istituzioni che in teoria dovrebbero privilegiare non l’interesse dei miliardari, ma di un pubblico più vasto, più  interessato  a  valori   che   non   siano  solo  economici. Ci  si è

sbagliati anche sotto questo aspetto: oggi i musei d’arte contemporanea servono a certificare i valori di mercato che i galleristi e i collezionisti hanno stabilito. Se vale tanto e viene esposto in un museo, vuoi dire che è grande arte, così si finisce per ragionare.

È triste, ma bisogna ammetterlo: oggi la maggioranza dei musei d’arte contemporanea serve a far guadagnare affaristi già ricchissimi, attribuendo loro una cultura che è più immeritata di quanto non fosse quella assegnata da Raffaello ad Agostino Chigi.

Anche le grandi manifestazioni internazionali, dalla Biennale di Venezia a Documenta di Kassel, non sono libere da questo meccanismo della financial art: spesso queste grandi esposizioni sono l’inizio di un percorso che porterà alla sicura consacrazione. La cosa apparentemente più paradossale di questa financial art è la facoltà di mascherare totalmente i suoi reali propositi.

Ogni artista, ogni critico, ogni mercante, ogni direttore di museo sembra muoversi in modo assolutamente disinteressato, come se pensasse solo al bene dell’arte, al suo sviluppo, alla crescita culturale di tutta la società. Per essere più credibili, ci riempiono di discorsi confusi e motivazioni evanescenti, campionari di poverissima consistenza intellettuale che  sembrano

fatti apposta per prendere in giro i più ingenui. Sembra grottesco, ma l’arte più materiale di tutti i tempi vuole apparire la più pura e spirituale che si possa immaginare, unica e irripetibile. L’arte sottoposta alle regole più inique della globalizzazione economica vuole apparire come la più emancipata  dalle  leggi  dominanti  nella  vita  ordinaria,  come   un  mondo “altro”, perfino migliore di quello normale.

Ma il tutto ha una sua ragione: per capire la financial art bisogna non capire, altrimenti l’inganno finirebbe subito. Così fra la financial art e il pubblico non coinvolto nelle sue speculazioni, quindi il 99,9 per cento, si è aperta una profondissima incomprensione, forse la più profonda che ci sia mai stata.

Nonostante le iniziative dei grandi promotori della financial art, questo pubblico non comprende perché  certa  arte  abbia  tanto rilievo. In passato, davanti a una opera di Burri, Fontana o Pollock, si capiva di essere davanti a un nuovo modo d’intendere l’arte anche quando non la si comprendeva.

Ora non si comprende in che modo opere e artisti trascurabili, eccetto che per i loro valori economici, potrebbero essere considerati i Burri, i Fontana e i Pollock dei nostri tempi, come pretenderebbero i loro sostenitori.

Sconcerta, poi, il fatto che a tanta arte insignificante corrispondano i valori economici più alti che ci siano mai stati. Ma è inutile farsi domande, il consenso del pubblico non conta, serve solo come contorno, vero o immaginario, ai trionfi già decretati da una ristrettissima élite di galleristi, critici, collezionisti privati e pubblici.

È ai loro giudizi insindacabili che ci si deve sottomettere, dando per scontata l’onestà assoluta dei loro fini: loro lavorano per la maggior gloria dell’arte e della cultura, non capirli significa essere senza cultura.

Così si accetta la dittatura tirannica di una élite che in qualunque altro contesto sarebbe considerata inaccettabile. In arte si può, perché l’arte concepisce ancora la contrapposizione fra uomini di genio, veri o supposti, e le masse incolte.

Kostabi è perfettamente cosciente dell’ esistenza di una financial art e del modello sociale e politico – l’arte della “super-élite” – che essa ci fa vedere in trasparenza. È tanto intelligente da capire che si tratta di un modello reazionario, malgrado la financial art abbia la presunzione di essere qualcosa di progredito e di progressista.

Il punto di partenza rimane quello, insoluto, di Warhol: se c’è società di massa, se c’è industria e comunicazione di massa, l’arte deve essere industria e comunicazione di massa.

Kostabi ha anche l’intelligenza di capire che il problema della “democraticità” dell’ arte non si risolve con la demonizzazione del denaro e del mercato, come in passato hanno creduto alcuni artisti con pretese rivoluzionarie.  

Si pensi, per esempio, a tutta l’arte d’Avanguardia. Il mercato ha commercializzato anche l’assenza degli oggetti, attraverso gli schizzi, i progetti  ,    le   documentazioni visive delle varie performance.

Quindi tutto, nell’arte contemporanea, è commercializzabile, non è uno scandalo, è anzi giusto che sia così, senza false ipocrisie. L’importante è trovare per l’arte una equilibrata via di commercializzazione, una via alla quale corrisponda un modello politico e sociale non reazionario.

È questa la ragione principiale per la quale Kostabi non è interessato alle speculazioni della financial art: al modello della “super-élite” preferisce un modello più democratico, in cui la partecipazione del pubblico non sia soltanto ipotetica, ma concreta e attiva.

Dimostrandosi diverso dalla maggioranza dei suoi colleghi, Kostabi vede, il suo pubblico come clienti, reali o possibili, che vanno coinvolti direttamente nell’elaborazione dei dipinti. Non è solo un’inclinazione personale, è una

visione del mondo attuale che è diversa da quella di Warhol, perché il suo mondo è diverso dal nostro. Ieri la comunicazione di massa era un fenomeno che veniva subito in modo prevalentemente passivo: pochi comunicavano attivamente, agli altri non rimaneva che ricevere i messaggi, senza possibilità di contraddittorio.

Oggi, con l’introduzione  di  Internet,  la comunicazione di massa è diventata molto più interattiva di una volta: non si è più nella condizione di ricevere solo messaggi altrui, ma si ha anche la possibilità di emetterne altri, potendosi stabilire in questo modo una comunicazione globale più libera.

È interessante notare la differenza in cui la financial art e Kostabi concepiscono Internet. La financial art concepisce Internet in un modo tradizionale, come se fosse la televisione, quindi come una vetrina in cui si mostra ciò di cui intende far crescere il valore.

A chi vede queste vetrine non resta che accettare quanto vede o lasciare perdere. Nel suo website, invece, Kostabi non si limita a presentare una vetrina delle sue opere, ma chiede pareri su come potrebbero essere altre, invitando a votare un progetto piuttosto che un altro.

È una esperienza di partecipazione interattiva interessantissima, non solo nel senso dell’evoluzio- ne del marketing artistico, che in un certo modo può essere messo sullo stesso piano di certi happenings creativi degli anni Sessanta – Ottanta.

Solo che ora l’intento è totalmente diverso da quegli anni: non si vuole sconvolgere il sistema, rinnegando l’arte come oggetto, ma al contrario lo si vuole perfezionare al massimo, rendendo gli oggetti quanto più disponibili  alle esigenze dei clienti. 

È questa la via commerciale che Kostabi contrappone alla financial art, una via più adatta all’epoca della comunicazione intermediale e che si apre direttamente al grande pubblico, invece di frustrano e strumentalizzarlo.

L’arte di Kostabi, intenzionalmente popular, semplificata nelle  sue  componenti  di   base   per   essere   linguaggio  immediatamente

comprensibile e replicabile, vuole essere davvero arte di tutti, non arte imposta a tutti, come invece è la maggioranza dell’arte contemporanea. L’obiettivo di Kostabi non è raggiungere quotazioni record in un’asta di Christie’s o di Sotheby’s, come si propone la financial art, né di gratificare l’ambizione di collezionisti miliardari che all’arte non vorrebbero chiedere altro.

Il vero obiettivo di Kostabi è far sì che qualunque cittadino moderno, qualunque uomo dell’epoca di Internet, da Helsinki a Città del Capo, da Adelaide a Lima, possa avere a casa o in ufficio una sua opera.

Se così succede,  vuol  dire  che  ogni  cittadino  moderno, di qualunque cultura, di qualunque luogo, può riconoscere nel volto senza tratti del Kostabiman il proprio, non perché anonimo, ma perché potenzialmente di tutti.

L’arte, dice Kostabi, deve proporsi di essere consenso di molti, non di pochi, altrimenti si rischierebbe di cadere nel razzismo. Si può discutere se questo consenso vada ottenuto artisticamente in un modo piuttosto che un altro, la soluzione di Kostabi non vuole essere affatto quella assoluta, né avrebbe la presunzione di esserlo.

È però importante affrontare il problema della dimensione sociale dell’arte contemporanea nello stesso modo in cui lo ha fatto Kostabi, senza richiudersi per forza nella financial art.

È impressionante notare come molti dei nomi più rinomati della financial art, capaci di muovere milioni e milioni di dollari, siano assolutamente sconosciuti al 99,9% della popolazione mondiale.

Questo non capitava ai tempi di Giotto, Raffaello, Michelangelo, Caravaggio, Bernini, Goya, Picasso, quando la comunicazione di massa dei nostri tempi ancora non esisteva. Ciò significa che l’arte di oggi, paradossalmente, è diventata ancora più elitaria di quanto non fosse ieri. È una contraddizione che non si può ignorare, e Kostabi lo ha capito bene.

Così come ha capito bene che porsi al passo con l’epoca di Internet non significa affatto recidere ogni rapporto con l’arte del passato. Anche se ponendosi come esponente estremo di un certo modo di concepire industrialmente l’arte, Kostabi afferma d’ispirarsi non ai modelli produttivi dell’era post-industriale, ma ai grandi maestri del passato.

Ha perfettamente ragione: Giotto, Raffaello, Guercino, per citare tre nomi noti a tutti, non sono grandi solo per essere stati nuove e precise individualità stilistiche, ma anche per aver avuto la capacità di organizzare uno stile ed essere in grado di diffonderlo ovunque.

Con Giotto, Raffaello e Guercino, anche i loro collaboratori di bottega hanno aiutato a trasformare in opera d’arte le loro idee, i loro progetti, i loro disegni. Non avrebbe senso distinguere le diverse mani dei collaboratori quando l’intera opera è stata progettata da un unico capobottega e organizzata in modo tale da riprodurre uno stile uniforme, per esempio come quello richiesto dall’Avanguardia.

L’industria di Kostabi si sforza di produrre ancora opere realizzate attraverso un certo grado di abilità manuale, come ai tempi di Giotto, Raffaello, Guercino, simili fra di esse, ma mai del tutto uguali. Il massimo della modernità diventa così il massimo della tradizione: anche nell’epoca della serialità globale e di Internet, l’arte mantiene un senso quando rimane artigianato, pratica che viene fatta innanzitutto con il mestiere delle mani.

Mi sembra un valore forte e assolutamente condivisibile, in un’epoca di facili sofismi estetici e di speculazioni come quella attuale. È questo il messaggio principale che colgo dalle infinite avventure di Kostabiman, il leit-motiv di una storia sempre uguale e diversa: anche per l’arte, non esiste una sola possibile globalizzazione, ma varie alternative, non tutte equivalenti e soddisfacenti.

Bisogna saper scegliere!

Opere di Mark Kostabi

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