L’Espressionismo astratto: Jackson Pollock

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“L’Espressionismo astratto: Jackson Pollock “a cura di R. Spinillo

Jackson Pollock ( 1912 – 1956 ), originario del Wyoming, una delle figure mitiche dell’ Arte Moderna, emerse come una delle personalità primarie della Scuola di New York già nel 1943, quando Peggy Guggenheim gli dedicò la prima personale nella sua galleria Art of This Century.

Jackson PollockI visitatori sconcertati parvero percepire sin d’allora che erano di fronte a un artista disposto a darsi totalmente, in modo stravagante e dissoluto spesso a costo di sacrificare l’armonia e la coerenza di alcuni singoli dipinti pur d’impadronirsi dell’essenza della pittura astratta moderna con una forza e un’intensità divenute leggendarie.

I dipinti esposti nel 1943 costituirono l’espressione pubblica più accentuata del nuovo spirito. L’alto grado espressivo cui l’artista spingeva la registrazione delle proprie sensazioni e persino delle proprie incertezze diede nuova fiducia e sicurezza a tutta l’avanguardia americana.

Pollock era cresciuto in Arizona e nella California del Sud e nella sua pittura emerge fin dall’inizio l’entusiasmo provato in gioventù di fronte all’immenso e illimitato paesaggio dell’Ovest. La sensazione dell’essere senza radici, altrettanto acuta quanto l’istintiva ripulsa per ogni sorta di vincolo sociale lo accompagnò lungo tutto il corso della sua vita.

Pollock lottò con la conflittualità, la brutalità, la passionalità, il disordine propri della sua natura e delle sue esperienze – che comprendevano non solo la miseria, l’alienazione e l’olocausto mondiale, ma anche l’alcolismo – giungendo a ricavarne un ordine superiore che in alcune opere raggiunge un’armonia e un equilibrio genuinamente classici. Una violenza latente è presente tuttavia anche nelle opere più serene sotto forma di una tensione particolare mai sopita.

Quasi un presagio: Pollock sarebbe morto comunque a quarantaquattro anni in un incidente automobilistico, una tragedia che apparve quasi intenzionalmente cercata. Pollock iniziò il suo apprendistato artistico nel 1929, quando approdò all’Arts Students League di New York ed entrò nella classe di Thomas Benton, maestro del realismo americano.

E’ significativo il fatto che Pollock trovò la propria indipendenza non tanto in reazione a Benton, ma attraverso di lui, ricreando, amplificando ed esagerando le ritmiche deformazioni del suo primo maestro con maggiore intensità, finchè le sue forme raggiunsero una dimensione diversa.

Pollock sostenne inoltre di essere stato influenzato dalla qualità libera e mitica delle cosiddette “pitture di sabbia” degli indiani, e anche dalla spiritualità meditabonda dell’arte di Ryder, i cui quadri, dipinti e ridipinti, rasentano a volte gli esiti dell’astrazione. In un certo senso, si può affermare che Pollock giunse alla non oggettività spingendo la forma espressionista fino al limite oltre il quale il soggetto diviene così inverosimile che viene meno l’esigenza di conservarlo.

Questo è in parte ciò che accadde nel periodo immediatamente successivo, prima nelle sue audaci rielaborazioni della pittura messicana e poi nelle rapide e aggressive assimilazioni di Picasso e dell’avanguardia europea. Nel 1942 Pollock partecipò alla prima mostra collettiva a New York, organizzata da John Graham alla Mc Millen Gallery.

Insieme a lui esponevano Graham, Lee Krasner ( sua futura moglie) e Willem de Kooning. Sempre nel 1942 Robert Motherwell presentò il trentunenne artista nella sua prima mostra personale all’ Art of this Century.

pasiphae pollockTra i quadri esposti vi era Pasiphae, opera in cui l’immagine totemica e il tema mitico riflettevano l’interesse dell’artista – e degli artisti newyorchesi in genere – in quel momento per la psicologia del profondo di Jung e per le teorie degli archetipi e dell’inconscio collettivo.

In Pasiphae la sua energia barocca condusse Pollock verso una nuova forma espressiva che alleggeriva le superfici dense e compatte della tarda fase cubista picassiana con la fluidità astratta di Mirò e con l’automatismo di André Masson.

Il debito di Pollock verso i surrealisti non riguardava tanto l’aspetto formale della sua peculiare scrittura “ a tutta tela”, quanto l’idea che la pittura dovesse essere un getto continuo scaturito da un’unica esplosione creativa. In Pasiphae le linee mosse e i movimenti agitati ricordano il Mirò del 1924 – 26.

L’artista spagnolo, tuttavia faceva galleggiare le sue forme su uno sfondo, creando uno scenario per l’evento pittorico e una parvenza di illusionismo. Esse conservavano così una propria integrità individuale malgrado le metamorfosi subite. Dalla mente ingegnosa e fertile di Mirò sgorgava un flusso abbondante e disordinato di vita nuova e di eventi pittorici, con un effetto molteplice e particolare.

Radicato nella tradizione moderna, Mirò poteva permettersi di giocare, scherzare, divertirsi con le sue paure, ricavandone un brillante divertimento. Per Pollock, al contrario la pittura astratta era qualcosa di più solenne e persino disperato. Egli si sentiva spinto a essere più feroce e concentrato e non aveva nulla del giovane pittore gaudente.

Artista ambivalente, vedeva nella pittura astratta un’espressione elementare di fede e in questa convinzione risiede la sua forza e la sua originalità. I quadri di Pollock procedono incerti dal particolare al generale, dal caos degli accenti espressivi all’affermazione unitaria. L’artista dissolve e fonde insieme i vaghi riferimenti a un soggetto chimerico in uno schema unificato e impersonale.

Una volta che il quadro era ultimato, Pollock lo intitolava in base a quella chimera cui ancora alludeva in modo del tutto secondario. Alla fine il dipinto non era che una superficie continua di accenti uniformi, dove risulta impossibile distinguere gli svolazzi lineari e le fantasmagorie del colore, tra vicino e lontano, tra pensiero simbolico e forma plastica.

Con l’aiuto della famosa tecnica del “dripping” che cominciò a utilizzare nel 1947, Pollock trovò gradualmente il mezzo per espandere le proprie lugubri e morbose intuizioni su una superficie più ampia, e di sacrificare le pulsioni più intime a un lirismo calmo e misurato. Le allusioni “vagamente immaginistiche” alle paure e alle fantasie personali smisero di assillarlo, lasciando il campo a ritmi più vasti e grandiosi e a una nuova luminosità.

La sua opera non suggeriva più presenze paurose o di altro genere, o sentimenti di disperazione, ma solo il flusso generoso e impersonale dell’energia pittorica. Mentre imparava a padroneggiare superfici sempre più vaste, il suo sentimento acquisiva un respiro sempre più ampio.

Come documentano le fotografie e il film realizzato da Hans Namuth su Pollock al lavoro, l’artista dipingeva stando in piedi sopra la tela e lasciandovi gocciolare sopra il colore fino a ottenere movimenti ritmici, le diverse densità e tessiture cromatiche che desiderava.

Una ragnatela aerea di linee argentee e nere, di spruzzi di colore distribuiti su uno sfondo di macchie ed estensioni dalle tinte delicate, aveva sostituito il colore opaco e resistente di un tempo.

La tecnica di Pollock, consistente nello stendere sul pavimento pezze di tela non tagliate e nel versarvi e schizzarvi sopra il colore liquido, gli consentiva di essere letteralmente “dentro il dipinto”, di muoversi all’interno di esso e di dare uguale rilievo a tutte le sue parti.

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