Jean Dubuffet

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Jean Dubuffet“Jean Dubuffet” a cura di Rosa Spinillo

Dubuffet ( Le Havre, 1901 – 1985 ) attraverso una nuova forma di vivace primitivismo espresse il sentimento predominante di solitudine e di alienazione proprio dell’Europa del dopoguerra, con accenti al tempo stesso comici e terrificanti.

Fino all’età di quarant’anni Dubuffet era stato poco più che un’artista dilettante e discontinuo, occupato più che altro a gestire la prospera azienda vinicola di famiglia e a godersi la bella vita parigina.

A ricondurlo rigorosamente sulla strada dell’arte fu la scoperta del libro di Hans Prinzhorn “ Bildnerei des Geisteskranken” dedicato all’arte prodotta dai malati di mente.

A questo punto Dubuffet si volse allo studio dell’arte dei bambini, degli alienati, dei naif, raccogliendone numerosi esemplari che egli classificò col termine di “ art Brut” e fece di queste forme espressive il modello per pitture e sculture bizzarramente vitali e gnomiche.

Jean DubuffetSia che si trattasse di graffiti murali, di arte “patologica” o di altri generi, le sue sorprendenti ricerche formali partivano dalla condizione umana anziché dai valori pittorici astratti. Le sue mostre parigine subito dopo la liberazione furono una rivelazione, ma scatenarono reazioni molto diverse.

Le sue prime figure, crude e scopertamente infantili, scarabocchiate e impiastricciate in colori densi e intrisi di rena, non lasciavano certamente inespresse le intenzioni dell’autore: erano allucinanti nel disegno e drammatiche nella materia, grottesche e crudeli, ovviamente macabre e tecnicamente ( falsamente) prodotte da incompetenza. In altre parole erano culturalmente al livello massimo della raffinatezza.

Né Dubuffet cambiò registro all’inizio degli anni Cinquanta, quando presentò la serie di “ Corps de dames” dove alla rituale rozzezza della materia si aggiungevano le anatomie “ geografiche” del corpo femminile che, scartato l’ideale classico, ricordavano piuttosto gli archetipi degli arcaici culti della fertilità.

Jean DubuffetMa anche qui un ricatto c’era: la materia, le pose e l’ambiguità spaziale conferivano loro una forza espressiva paragonabile alle cose migliori della pittura astratta. L’arte di Dubuffet è vicina al Surrealismo, ma più nel metodo che nell’atteggiamento.

Egli disse che “la chiave di tutto non deve essere dove ce lo immaginiamo: io ho l’impressione che il mondo sia governato da strani meccanismi dei quali noi non ne abbiamo la più pallida idea”.

Negli “assemblages” ( così chiamò i collage ) impiegò campioni di materia organica – licheni, foglie, ali di farfalla, spugne, cenere, pezzi di lava – come i cubisti usavano carta e legno.

Dai Surrealisti differì anche perché si rifece a oggetti di culti antichi per creare un “ miscuglio di consuetudine e di terrore”. Agli inizi degli anni Sessanta, Dubuffet, cominciò la serie di quadri decorativi che chiamò “L’Hourloupe”, titolo senza significato.

Jean DubuffetIl nuovo stile (che perseguì fino alla morte) applicato in pittura, in scultura e nei cosiddetti “praticables” (“praticabili” o quinte teatrali), rivelò subito di discendere dalla rituale compattezza del disegno e dal senso di straniamento dell’arte psicotica.

Dubuffet era sempre stato attirato dal mondo fantastico della mente malata per il dramma non solo psichico ma visivo che contiene, e perché vi vedeva un’alternativa al sistema estetico super- educato.

La nuova cosmologia dell’artista era popolata di frammenti da commedia umana, oggetti banali che conducono una vita tutt’altro che banale, mobili che impersonano uomini, i quali impersonano alberi, e costruzioni che illustrano idee.

Grazie allo splendido controllo della forma, categorie, specie e perfino proprietà fisiche si confondono tutte nell’impasto finale.

Jean DubuffetAlla “commedia umana” dei crudeli e comici ritratti del primo dopoguerra Dubuffet successivamente ha aggiunto un elemento farsesco alquanto sinistro, un pozzo scuro nel quale le risonanze psichiche trovano eco, per intenderci, nelle inanità e nelle straziate caricature di Ionesco, suo amico intimo fin dagli anni Quaranta.

Infatti il lato fantastico de “L’ Hourloupe” è allegro nel disegno elementare e nei colori da asilo infantile, ma solo in superficie: sotto si percepisce che è l’equivalente plastico della mente in catene. Fino a “ L’Hourloupe” e ai “praticables” scultoreo- architettonici di grandi dimensioni, Dubuffet andava collocato quasi eslusivamente nell’area cupa del dopoguerra, l’epoca delle spettrali sculture di Giacometti.

Ma poi venne “L’Hourloupe”, appunto, e fu chiaro che Dubuffet – non solo nelle tele, ma nelle sculture e nelle fantasie architettoniche – creava più spazio, cercava di dare al suo stile maggiore respiro.

Anche nella sua ultima produzione, che è stata forse la più stimolante in Europa, insieme a quella della giovane generazione neo- espressionista, Dubuffet appare di statura ormai pari, o quasi, a quella di Klee e di Schwitters, mentre sempre più si chiarisce il suo ruolo di alter- ego delle esperienze Pop e Funk degli anni Sessanta.

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