Mark Kostabi: critica di Vittorio Sgarbi

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“KOSTABI – Da Giotto a Warhol, Andata e Ritorno…” 
a cura di Vittorio Sgarbi

In principio fu Andy Warhol. Prima di lui il rapporto fra arte moderna; industria e comunicazione di massa era ancora fortemente contraddittorio.

C’erano stati tentativi di conciliazione fra questi elementi, anche importanti e felici (le applicazioni extrapittoriche del Futurismo, il Costruttivismo) ma l’arte, nella sua visione più romantica, rimaneva qualcosa di difficilmente conciliabile con la produzione in serie, ovvero con la nozione, non solo tecnologica, di serialità.

L’arte è una espressione dello spirito unica e irripetibile, dicevano gli artisti, i critici, i filosofi idealisti, i mercanti,guardando le opere moderne come se il mondo attorno non fosse cambiato dai tempi di Caravaggio o di Goya.

Intanto, però, l’arte diventava una questione economica sempre più importante e la produzione in serie diventava un mezzo straordinario per far crescere il commercio, e con esso tutto il sistema artistico, dalle gallerie ai musei.

L’Avanguardia aveva identificato l’arte in una serie di nuove pro-poste estetiche, ognuna delle quali era subito riconoscibile per una formula visiva, una cifra stilistica originale, un marchio di fabbrica.

Involontariamente, l’Avanguardia si era predisposta per la produzione in serie, quindi per le nuove regole del mercato moderno: fare Cubismo significava fare le opere in modo teoricamente programmato, per poter garantire risultati sempre molto simili. Salvo poche eccezioni, lo stile e la forma dovevano essere uniformi e costanti, con poche varianti da un’opera all’altra, da gruppo a gruppo, ma anche da artista ad artista.

Le cose si sono ulteriormente standardizzai quando, con l’Informale e le prime apparizioni di quello che sarebbe stato chiamai Concettualismo (Fontana), le maniere stilistiche dell’ Avanguardia si sono fatte sempre più essenziali, con-centrate attorno a gesti, segni e materie sempre più primordiali nella loro espressività.

In altre parole, l’ Avanguardia era diventata sempre più marchio di fabbrica; eppur continuava a contrapporsi in modo radicale alla serialità industriale, come se da una parte fossero la libertà e la dignità intellettuale , dall’altra la macchina, la bassa merceologia dedita profitto. Dietro ogni opera dell’Avanguardia, anche quella più elementare, c’era sempre garanzia di una mano e, dietro quella mano, uno spirito geniale. Comunque lo si giudichi, Warhol ha cercato di risolvere la contraddizione fra arte serialità industriale.

Il ragionamento di Warhol era coerente: se l’Avanguardia è diventa marchio di fabbrica e l’arte ha la necessità di confrontarsi direttamente con la società moderna caratterizzata dal dominio della comunicazione di massa, deve farlo fino in fondo, riducendo minimo la distanza fra arte e industria.

Così Warhol ha cambiato il concetto tradizionale di ope: d’arte come manufatto, impiegando abbondantemente i mezzi meccanici, in prìmis la fotografi attraverso il riporto serigrafico. Con i mezzi meccanici, la potenzialità seriale dell’opera d’ari diventa infinita, ponendosi sullo stesso piano del prodotto industriale. Non è una questione so] tecnologica, ma anche di sostanza: l’opera d’arte perde l’unicità e l’irripetibilità, quelle teorizza da Walter

Benjamin come elementi fondamentali dell’età pre-moderna, per diventare una merc Come tutte le merci, lo scopo dell’arte prodotta in serie diventa quello di essere venduta e diffondersi quanto più possibile nel mondo.

Warhol è il primo artista moderno a riconoscere all’arte la priorità commerciale e a misurare il su valore con il successo: più si produce, più si vende, più ci si fa conoscere nel mondo.

La visione mercantile di Warhol potrebbe sembrare un’omologazione dell’arte alle regole più materia e “anti-spirituali” del capitalismo di massa. In parte lo è, ma solo se ci si accorge che, dal punto di vista sociale e politico, questo tipo di omologazione non è per l’arte un passo indietro.

Dal punto di vista politico, il capitalismo di massa è stato certamente più “democratico” di quanto non fosse il capitalismo proto-industriale. Il capitalismo di massa sostiene la larga diffusione di beni e di ricchezza, in modo tale che tutti, o almeno un numero quanto più ampio di persone, possano permettersi di comprare ciò che una volta potevano permettersi solo i ricchi. Tutti possono comprare, tutti hanno la possibilità di diventare benestanti, questo è il “messaggio” del capitalismo di massa, diventato quasi una cosa unica con l’american way of life.

È significativo che rispetto al modello politico del capitalismo di massa, l’arte prima di Warhol si era posta in un modo che non può essere considerato progressista. Sostenendo l’unicità e l’irripetibilità dell’opera, largamente condivisa anche dall’Avanguardia, l’arte finiva per avvalorare un modello sociale fortemente elitario: pochissimi e fuori dalle norme abituali erano i creatori, ma pochissimi erano anche gli acquirenti di opere, molto più benestanti della media.

Inevitabilmente, l’arte finiva per diventare un costume della società beata che poteva permettersela, un suo specchio, se non un suo divertimento. L’arte, cioè, diventava motivo di grande prestigio culturale che con il suo fascino poteva far dimenticare la miseria di coloro che la finanziavano.

Il caso di Raffaello può essere emblematico: i suoi due maggiori committenti romani, Papa Giulio TI e Agostino Chigi, si sono serviti della sua arte per cambiare completamente la loro immagine, il loro look, come si direbbe oggi. Giulio Il era un papa violento che non esitava a armarsi per combattere i suoi nemici temporali, mente occulta di

stragi e omicidi, venditore di indulgenze per finanziare le guerre e i nuovi capo-lavori del Vaticano. Agostino Chigi era un arricchito senese desideroso di potere e piuttosto volgare, sempre pronto a esibire la sua ricchezza, come quando dalla sua villa della Farnesina invitava gli ospiti a gettare nel Tevere le posate in oro che poi recuperava grazie a reti nascoste sui letto del fiume.

Bisogna dire che Raffaello è riuscito perfettamente nel suo compito, dimostrandosi un eccezionale pro-motore di immagine non solo per il presente, ma per l’eternità. Quanti di noi, ammirando le Stanze Vati-cane, si ricordano che furono volute da un papa così discutibile come Giulio TI?

Quanti, vedendo le Logge della Farnesina o la Cappella Chigi a Santa Maria del Popolo, penserebbero che il loro committente non era affatto una persona colta e raffinata, ma un qualsiasi arrivista in cerca di gloria? Quanti coglierebbero, in questi due mecenati, i peccati che i loro contemporanei ci hanno riferito, evidentemente ancora capaci di distinguere la bellezza sublime dell’arte dalla propaganda?

Quasi nessuno: per noi, Giulio Il e Agostino Chigi sono di-ventati partecipi dei capo-lavori di Raffaello, avendo-ne permesso la loro realizzazione, rispecchiano dunque anche loro il vertice di altissima civiltà che le opere d’arte hanno toccato. E in ciò si finisce per fraintendere l’arte, credendo che essa abbia avuto come unico e disinteressato scopo la rappresentazione della bellezza così come ciascuna epoca l’ha concepita.

Prima di Warhol, la situazione sociale e politica dell’arte era cambiata dai tempi di Raffaello, ma non di molto. Gli artisti si erano resi più autonomi e intellettualmente evoluti rispetto al passato, non apparteneva-no più alle corti di papi, re o principi, ma i ricchi continuavano a comprare le loro opere.

Come ai tempi di Raffaello, i ricchi si servivano ancora del collezionismo e del mecenatismo per acquisire un prestigio culturale che altrimenti sarebbe stato al di fuori delle loro capacità.

Erano forse scomparse figure come quelle di Giulio TI, essendo tramontata un certo tipo di società aristocratica, ma non quelle come Agostino Chigi, simbolo modernissimo di un certo tipo di borghesia affaristica e imprenditoriale.

La serialità dell’arte di Warhol conteneva in sé un progetto politicamente utopico: se vogliamo che l’arte sia a misura di massa, dunque non più elitaria, tutti devono avere diritto a possederla. La proprietà dell’opera d’arte non doveva essere ritenuta esclusiva, ma una prerogativa esercitabile da chiunque.

Sarebbe stato lo stesso Warhol a limitare questo slancio rivoluzionario, perché contrario ai suoi interessi economici. Meglio che il mercato considerasse le sue opere così “meccaniche” e quasi industriali nel processo di produzione, come “manufatti” del passato c’è sempre il genio romantico dietro di esse, anche se non si manifesta manualmente.

Tutti, però, possiamo avere una immagine di un’opera di Warhol, visto che è così facilmente riproducibile e così simile, anche tecnologicamente, all’originale. Mark Kostabi, californiano di nascita, diviso nella sua attività fra New York e Rom è figlio della nuova concezione dell’arte introdotta da Andy Warhol.

Dal punto di vista stilistico Warhol e Kostabi avrebbero poco in comune, anche se sono entrambi artisti moderi saldamente legati alla figurazione. Warhol usava il riporto fotografico, le tecnologie tipografiche, le repliche di una stessa immagine anche in una stessa opera; Kostabi è un ammiratore del “mestiere antico adotta frequentemente la prospettiva rinascimentale, non utilizza alcun supporto meccanico per le sue immagini e pratica una pittura a olio piuttosto tradizionale, ispirata a grandi esempi della storia dell’arte del passato, “il chiaro-scuro” di Caravaggio, “lo sfumato” del Peruginc “il surreale” di Magritte, “la melanconia” di De Chirico, malgrado l’aspetto dei suoi dipinti sia assai diverso da queste fonti di provenienza. Warhol è iconico, rielabora una immagine già esistente, quella della comunicazione di massa e del] star System, cristallizzandola e proponendola in una nuova chiave estetica.

Kostabi è narrativo (inventa dinamicamente nuove figure, nuove composizioni, nuovi espedienti visivi per ogni su dipinto, sebbene ricorra sempre a uno stesso tipo di figura. È una silhouette bianca dotai di spessore volumetrico, una specie di Bibendum della Michelin dopo una drastica dieta dimagrante, ma senza volto, senza capelli, senza organi genitali, senza definizione muscolare, appena distinguibile nelle differenza fra maschio e femmina.

Non so se abbia u nome, ma gli starebbe benissimo Kostabiman, come un “supereroe” della normalità senza lettere o simboli da mostrare sul petto, punto minimo di mediazione fra immaginazione realtà, in attesa di una inevitabile trasposizione scultorea, o meglio ancora di diventare u giocattolo, un bambolotto di gomma plasmabile che i bambini non lascerebbero mai.

Da un certo punto di vista, Kostabiman è una riedizione riveduta e corretta dei ” pupazzi” di Keith Harin umanizzati, neutralizzati, “gonfiati”, privati dell’eccessiva stilizzazione grafica che li aveva trasformati in segni, elementi decorati e decorativi.

Quelli di Kostabi, però, non sono segni, né decorazioni. Sono veri e propri personaggi: che abitano e vivono i dipinti di Kostabi come Topolino o Mandrake vivono le loro avventure, nelle strip dei fumetti. Se un giorno si riuscisse nella grande impresa di riunire tutte le migliaia e migliaia di dipinti di Kostabi, uno dopo l’altro, dovremmo ammettere di aver fatto la storia illustrata più vasta mai registrata dalla storia dell’ arte, la storia di Kostabiman.

Una Odissea fantastica e magrittiana, strampalata, senza un suo sviluppo lineare, con episodi che si aprono e si chiudono in un solo dipinto, oppure che si collegano ad altri attraverso salti bruschi e incoerenti; ma sempre di una storia si tratterebbe, a cui ognuno di noi potrebbe dare il senso che vuole.

Sarebbe un po’ come trasporre in arte il paradosso di Borges per il quale, mettendo una dopo l’altra tutte le combinazioni possibili fra le lettere dell’alfabeto, si otterrebbero certamente tanta casualità, ma anche tutti i maggiori capolavori della letteratura internazionale. Oppure come mettere assieme le fotografie degli album di famiglia realizzati in ogni parte del mondo, nella sicurezza che dal caos verrebbe fuori una qualche continuità.

La vicinanza fra Warhol e Kostabi va dunque cercata su un piano diverso dallo stile Se Warhol aveva indicato una strada, l’arte come pratica commerciale, come organizzazione industriale destinata alla comunicazione globale, Kostabi l’ha sviluppata e adeguata con perfetta coscienza del suo tempo.

Kostabi può vantarsi di essere il pittore più prolifico del mondo la sua factory, Kostabiworld, è a New York ed è organizzata con criteri industriali molto efficienti di quelli dell’analoga azienda di Warhol, contando tanti collaboratori che dipingono secondo le istruzioni del titolare.

Non è solo per desiderio di denaro che Kostabi si è organizzato in questo mo Anzi, potrà sorprendere sapere che questo tipo di organizzazione del lavoro si oppone al m più fruttuoso e appariscente di fare soldi con l’arte contemporanea. C’è modo e modo di fare denaro, e Kostabi ne ha scelto uno.

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