Duchamp e il Dadaismo

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“Duchamp e il Dadaismo” a cura di Rosa Spinillo

Durante la Prima guerra mondiale, la Svizzera rappresentò un porto franco per molti intellettuali che cercavano di sfuggire ai mali del conflitto.

foto DuchampProprio in una terra che si era dichiarata neutrale si verificò una fortuita concentrazione di creatività, che si espresse tuttavia in termini di bellicosità nichilista.

Al Cabaret Voltaire di Zurigo nacque, nel 1916, il dadaismo il nome già preannunciava l’irrazionalità ispiratrice.

“Dada” non significava nulla, come avrebbe affermato Tristan Tzara due anni più tardi nel primo manifesto del gruppo.

I nomi dei movimenti d’avanguardia che avevano preceduto il dadaismo intendevano indicare, o avevano finito per significare, il carattere delle loro operazioni, e anche questa volta la scelta non era del tutto casuale, perché dada non proponeva, tendeva piuttosto ad annullare.

A partire dall’idea di bellezza, dichiarata morta, e con essa quale inevitabile conseguenza, la critica dell’arte nonché il tradizionale rapporto di dipendenza dell’artista dal pubblico, dichiarandosi ora l’arte un’attività squisitamente privata.

Infatti, il manifesto del 1918 si concludeva con la proclamazione della coincidenza tra dada e vita; non tuttavia secondo una volontà simile a quello del futurismo, che aveva inteso permeare di sé il mondo intero.

Marcel-Duchamp-ruota-di-biciclettaDada non cercò infatti di creare uno stile; Marcel Duchamp presentava come opere d’arte oggetti sottratti alla quotidianità limitandosi ad assemblarli tra di loro.

Ruote di biciclette montate su sgabelli, portabottiglie, persino orinatoi vennero firmati come vere e proprie creazioni, perché ora si riconosceva all’artista un potere illimitato.

Incominciava allora la separazione tra artista e pubblico che si accentuò nel corso del secolo; non che i futuristi, intendessero assecondare il gusto degli spettatori ma, nella violenza con cui lo provocavano, speravano di educarlo a nuovi criteri estetici. I dadaisti lo violentavano solamente.

Emblematica la reazione dei visitatori di una mostra organizzata a Colonia all’inizio degli anni Venti, in cui il pubblico era invitato a servirsi di una scure per distruggere una scultura lignea di Max Ernst.

Vi era poi una ragazza in abito da prima comunione che recitava versi osceni, ispirati ai fotomontaggi a sfondo sessuale di Ernst.

Risultato; gli spettatori storditi e offesi, distrussero il locale e danneggiarono le opere, con prevedibile soddisfazione dei dadaisti organizzatori. I dadaisti tedeschi furono in generale più impegnati rispetto ai colleghi di Zurigo e di New York.

Duchamp, a New York nel 1917, si sarebbe di lì a poco unito a Picabia e a Man Ray. Dada e Duchamp si identificano l’uno nell’altro, dada è Marcel Duchamp e viceversa. Partito dalla pittura impressionista, poi cubista o cubofuturista, come ben illustra il Nudo che scende le scale n.2 (1911), approdò all’ esperienza dada percorrendone la nascita ufficiale e firmando i primi ready-made.

Marcel Duchamp gioconda baffiA lui si devono le operazioni dada più ironiche, spesso giocate sul doppio senso e l’ambiguità. Mentre alla Gioconda aveva disegnato un paio di baffi, si faceva pure ritrarre in panni femminili assumendo lo pseudonimo di Rose Selavy, operava continui scarti semantici, come per ribadire la fragilità di qualsiasi definizione, qualunque essa fosse, verbale, artistica, sessuale.

Duchamp rimane il progenitore dell’arte concettuale, sia per aver anteposto l’idea all’oggetto, sia per aver conferito all’artista una sorta di onnipotenza canzonatoria.

Nel 1919, il drappello dada si sposta a Parigi, pronto ad agitarne l’ambiente post-bellico; ma proprio perché la sua arma principale era la negazione, non la diffusione di una cifra stilistica, il suo tempo stava rapidamente venendo meno. La critica irriverente, per turbare, deve concentrarsi in tempi brevi, non può attendere di essere interiorizzata.

Si profilava intanto all’orizzonte il surrealismo che avrebbe tradotto un po’ dello spirito dada in un fare più concreto. Dopo la demolizione operata dall’irriverenza dadaista si avvertiva infatti il desiderio di ritornare a costruire.

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